WILLIAM G. CONGDON

Condividi

WILLIAM G. CONGDON
“Un segno, un gesto, una presenza”
Pastelli e pitture ad olio

Inaugurazione sabato 18 maggio 2002 – In esposizione dal 18 maggio al 9 giugno 2002.

Vi è l’occhio vegetativo, occhio di questa riva, che vede l’apparenza, che vede la “cosa”, che vede come vede il cane. Poi c’è l’occhio dell’altra riva, occhio che intravede la Presenza e non vede quell’albero in fondo al campo, ma vede il nulla in cui sta nascendo l’albero, in trasfigurazione da oggetto a immagine dell’albero”.
W. Congdon 1994

La mostra presenta una selezione di pastelli, attraverso cui è possibile seguire il suo percorso artistico dal 1982 al 1998, e una serie di opere ad olio realizzate a Gudo Gambaredo, in parte inedite, caratterizzate dalla forza espressiva del gesto creativo dell’artista. Un tema si ripete più volte ed è la “casa di Gianni” a partire dalla prima del 1979 all’arrivo a Gudo fino a quella dipinta nel settembre del 1996.
Grande importanza assumono due Crocefissi, mai esposti, che permettono l’incontro con un tema tanto caro all’artista.

 

William Congdon 1912 – 1998

Nato nel 1912 a Providence, nel Rhode Island (U.S.A.), William Congdon frequenta l’università di Yale. Durante questi anni, il suo temperamento estremamente sensibile al mondo esterno e i suoi interessi estetici lo portano a frequentare dapprima i corsi en plein air del pittore Henry Hensche e successivamente a dedicarsi alla scultura presso il maestro greco – americano George Demetrios.
Questi anni di apprendistato, già comunque segnati da un talento genuino e promettente, vengono interrotti dallo scoppio della seconda guerra mondiale, cui Congdon partecipa come volontario ambulanziere; al seguito dell’VIII Armata Britannica conosce i paesaggi e le città dell’Italia sotto i bombardamenti, il deserto africano, teatro della storica campagna, e, poco più tardi, inviato a Belsen, è testimone del dramma dei campi di concentramento.
Il trauma della guerra porta Congdon a una via espressiva forte e personale: col tempo, la sua ambulanza prende a riempirsi di piccoli disegni, schizzi e ritratti a matita e carboncino dei moribondi nell’ospedale di campo e di corpi dei deportati ebrei.

Alla fine degli anni Quaranta si trasferisce a New York; questa città e questo preciso momento storico caratterizzato dai primi eppure già dirompenti passi della nascente Action Painting, costituiscono le coordinate del vero ‘battesimo’ artistico di Congdon. Egli si avvicina, ‘attratto dall’esplosione di libertà, al gruppo degli Irascibili della Betty Parson’s Gallery legandosi, fra gli altri, soprattutto a Robert Motherwell e Mark Rothko, e guardando un po’ più da lontano Jackson Pollock. Sebbene Congdon utilizzi alcuni elementi grammaticali comuni ai pittori della Scuola di New York, quali il dripping o la divisione del piano pittorico in vasti (e, nel suo caso, tormentati) campi cromatici, egli si presenta, da subito, come un action painter sui generis, per il rifiuto, rispetto agli altri pittori puramente astratti, di abbandonare l’oggetto nelle sue rappresentazioni: la città diventa d’ora in poi il soggetto privilegiato della sua visione; una città distrutta o trasfigurata fino al limite della riconoscibilità, ma pur sempre presente.
Congdon dipinge sempre servendosi di una superficie rigida (pannelli lignei o lastre di piombo, più raramente di vetro) sulla quale letteralmente plasma le masse di colore ad olio (per i cui accostamenti dimostra, col tempo sempre più evidentemente, un gusto e un’esattezza rari) mischiate a elementi estranei (polveri, terra, caffè, cenere e quant’altro) mediante l’utilizzo di spatole preferibilmente di grandi dimensioni.

Il segno pittorico, dunque, oltre a testimoniare l’azione, il gesto che l’ha prodotto, diventa anche e immediatamente, in Congdon, testimonianza e segno della realtà dell’oggetto visto come imprescindibile punto di partenza della sua personalissima dinamica creativa.
Gli anni Cinquanta, periodo in cui Congdon si trasferisce in Europa aprendo studi a Venezia e Parigi, trascorrono segnati da una serie sempre più febbrile di spostamenti in luoghi che diventano, con un crescente senso del tragico, i soggetti della sua pittura: Venezia in primis, Istanbul, il deserto del Sahara, Santorini, fino alla terribile visione degli avvoltoi nel Guatemala.
Giunto quasi al culmine dell’autodistruzione nella sua pittura (tratto che accomunerà non pochi fra gli artisti newyorchesi), Congdon trova un sicuro e decisivo approdo nella Chiesa Cattolica cui si converte ricevendo il battesimo nel 1959 ad Assisi.
In questo nuovo inizio Congdon si dedica a una pittura di carattere esplicitamente sacro, dipingendo scene tratte dalla vita di Cristo, soprattutto gli episodi della Passione: nasce l’imponente serie dei Crocefissi che raggiunge, dal 1960 al 1980, un numero di circa 180 dipinti: è l’unico caso in tutta la sua produzione artistica in cui Congdon non si rivolge a un soggetto fisicamente presente ed effettivamente visibile.
Nel frattempo riprendono i viaggi con quella che egli stesso definisce la ‘seconda grande migrazione’ che lo porta verso l’India: Bombay e Calcutta, con le visioni dei derelitti per le strade e nella grande stazione, diventano i soggetti dei dipinti degli anni Settanta, in cui va via via chiarendosi e prendendo forma una visione del mondo sostenuta da una travagliata coscienza religiosa.

Dopo un ventennio trascorso fra Assisi e Subiaco, Congdon inizia il suo ultimo viaggio ‘fermandosi’: nel 1979 si stabilisce definitivamente a Gudo Gambaredo, nella Bassa milanese, non lontano da Buccinasco, in una casa – studio annessa a un monastero benedettino.
Qui, ormai sessantenne, e dopo avere visto e reso testimonianza nei suoi dipinti dei luoghi più belli e più tragici al mondo, la sua ‘obbedienza’ all’oggetto viene messa a prova: il ‘nulla di natura’ della piana lombarda lo costringe a una visione e a una pittura sempre più rarefatte; i campi apparentemente privi di storia umana prendono il posto delle città e dei monumenti e la sua pittura prende a seguire il tempo ciclico delle stagioni che, insieme al lavoro dei contadini e alla varietà degli accidenti atmosferici, trasformano continuamente il paesaggio circostante.
Col tempo e la confidenza con la ‘tristezza informe’ dei campi, delle risaie e delle nebbie, il suo sguardo puntato oltre l’apparenza dei paesaggi si affina verso esiti ormai esplicitamente contemplativi. Dal 1982 inizia una serie di pastelli con un linguaggio parallelo ma distinto dalle pitture ad olio. Se le tavole sono frutto della memoria del rapporto con il reale i pastelli sono una rappresentazione immediata di ciò che lo colpisce attraverso un segno più o meno sintetico. Questi disegni non hanno nulla di astrattamente decorativo ma, come ha scritto Giuseppe Mazzariol, sono delle “architetture di spazi”.
Nel suo ultimo periodo riprende la pittura su tavola, abbandonata per motivi di salute, dedicandosi a lavori di piccole dimensioni fino all’ultima opera “Tre alberi” dipinta il Venerdì Santo del 1998, due giorni prima di morire.